La narrazione e il vivente

Uno dei luoghi cruciali in cui, negli ultimi anni, si è riproposto lo scontro tra le “due culture” è la polemica accesa dalla pubblicazione in Francia del Libro nero della psicoanalisi nel 2005. Quaranta tra ex psicoanalisti, neuroscienziati e filosofi della scienza vi formulano una condanna senza appello della psicoanalisi (nient’altro che una fabbrica di favole, senza alcun valore clinico e conoscitivo), alla quale viene opposta l’oggettiva scientificità delle terapie cognitivo-comportamentali e farmacologiche. Un Anti-libro nero della psicanalisi risponde quasi subito con una serie di argomenti contro l’approccio scientista e “positivista” di tali “teorie della mente”, che paiono mirare unicamente al ristabilimento di comportamenti funzionali e normalizzanti del soggetto, trascurando la sofferenza psichica e il desiderio di soggettivazione. A perdersi è la dimensione del profondo e dell’imperscrutabile, come pure l’attività ermeneutica da essa sempre implicata; è la dimensione dell’inconscio come serbatoio di conflitti ma anche di possibilità di rigenerazione che avevano come loro medium la narrazione. La talking cure freudiana, infatti, è sostanzialmente una pratica di riscrittura della storia implicita nel vissuto del soggetto. Alla fine, ciò che fonda la psicoanalisi è la capacità della narrazione di ristrutturare la nostra rappresentazione immaginaria di quell’attante che è l’Io, di rivedere la nostra posizione rispetto a esso, di rimodellare quell’«io credo» e «io sento» che accompagna tutte le nostre esperienze.
Il lavoro di ricerca consisterà prima di tutto in una ricostruzione critica del dibattito che vede contrapposti l’approccio “culturalista” di Freud e quello “naturalistico” dei suoi nuovi detrattori. Tale disputa verrà intesa come un caso particolare e particolarmente significativo dello scontro tra soft sciences e hard sciences: scontro tra due forme di riduzionismo che stimola l’elaborazione di modelli di comprensione dialettica e di connessione interattiva. Lavorare in questa direzione è il secondo obiettivo del progetto: fisiologia e narrazione, neuroscienze e psicoanalisi verranno intesi come due diversi orizzonti conoscitivi e cognitivi che operano a livelli analitici diversi ma inevitabilmente correlati da una dialettica (anche negativa) che colora l’uno delle caratteristiche dell’altro. In ultima istanza, la ricerca si propone di studiare la narrazione quale tecnica culturale per organizzare il vivente e la sua comprensione.

Se, infatti, l’idea della talking cure freudiana è quella di un’attività costruttiva della formazione del senso, della produzione di trame quale principio strutturale dei processi mentali e insieme delle vicissitudini umane e culturali, ciò comporta una conseguente trasformazione dell’idea di narrazione quale facoltà capace di organizzare non soltanto i dati della comunicazione simbolica e discorsiva, ma anche il vivente in quanto tale. Un’idea che gli approcci anti-psicoanalitici, al contrario, negano.
Paradossalmente, l’atto di accusa della talking cure freudiana avviene proprio nel momento in cui nasce una narrative medicine; una “dottrina” che sottolinea il valore della parola e della narrazione in particolare come mezzo di cura, non soltanto per “trattare” gli effetti psicologici delle malattie, ma anche come supporto prezioso all’interpretazione fisio-patologica e al trattamento dei sintomi. L’idea è dunque quella che la narrazione del vissuto di malattia ne arricchisca la conoscenza biologica e che il paziente, essendo l’esperto della condizione che vive, metta a disposizione un’esperienza irrinunciabile per una necessaria personalizzazione del processo di cura. A questo punto però si pongono domande cruciali a cui si può rispondere soltanto attingendo allo strumentario approntato dalle scienze del testo: a quali discorsi e modelli il paziente si affida per raccontare la propria esperienza? e quali sono i discorsi e i modelli che filtrano la comprensione di questa storia? ecc. ecc. In questo modo, la valutazione del processo clinico implicherebbe allora anche competenze narratologiche, linguistiche, ermeneutiche come la capacità di rilevare e decodificare metafore, allusioni, citazioni. Implicherebbe, in altre parole, l’attitudine – genuinamente “letteraria” – a proiettarsi al di fuori delle forme discorsive in uso nella pratica medica, a riconoscere come sono queste a dar forma alla malattia e alla salute, a mediarci non soltanto la loro concezione ma anche l’esperienza di esse.
Se, nella modernità ha dominato il modello biomedico, che – per usare le parole apodittiche di David Morris – «divide i corpi dalle menti, considera i corpi come macchine e riduce la malattia al linguaggio della chimica e della fisica», la medicina – scrive Kathrun Montgomery Hunter – rimane, per l’appunto, un’attività ermeneutica, che adatta astrazioni scientifiche ai singoli casi, che «ha già qualcosa in comune con la letteratura e lo studio letterario per il suo linguaggio figurativo e l’organizzazione narrativa degli eventi della malattia». Lo spostamento da un paradigma biomedico verso uno bio-culturale è, da questo punto di vista, “soltanto” una rimodulazione del loro rapporto che impone una riflessione rigorosa, non soltanto “culturalistica” sul medium universale della narrazione.